Per la povera gente delle città e delle campagne il baccalà era un alimento importante e, come i maccheroni, considerato simbolo di benessere e abbondanza. Aveva un gusto gradevole e, se ben cucinato, poteva solleticare il palato dei più raffinati buongustai e stare al pari di qualunque prelibato manicaretto. Preparato in bianco con olio e limone, sotto forma di pasticcio, in tortiera o in casseruola condito con pomodoro, pinoli e uva passa era squisito. Qualcuno scriveva che le stesse divinità dei tempi antichi «lo avrebbero preferito all’eterna ambrosia».
In una cicalata si legge che era il cibo dei semidei, che solo a vederlo rallegrava il cuore ed era sano perché se i pesci puzzavano dalla testa, era decollatu, ed è giustu, si nnò corrumpiria anchi lu bustu. E in un’elegia dedicata al baccalà si legge che era incantevole a vedersi nel piatto, bianco come il latte, gustoso come nessun altro cibo e ogni giudice lo avrebbe dichiarato il migliore tra tutti. Se Adamo avesse mangiato merluzzo salato non sarebbe stato scacciato da Dio e Giuseppe l’ebreo non sarebbe sfuggito alle voglie della sua padrona se avesse inteso odore di baccalà.
Gli esperti raccomandavano che i baccalà da acquistare dovevano essere di grandi dimensioni, avere un colorito bianco e leggermente «paglino» nella faccia interna, la polpa lungo la spina non doveva presentare colorito bruno o rossastro, la pelle doveva essere aderente al corpo e la carne tenera, ben compatta e di buon odore. Gli stoccafissi, a differenza dei merluzzi salati, resistendo ai calori estivi, potevano serbarsi anche per due anni ma accidentalmente bagnati o tenuti ammucchiati in luoghi umidi erano anch’essi soggetti a putrefazione rapida, alla tarlatura e all’impolveramento.
Per distinguere «anche all’oscuro» un ottimo gadus morhua, bisognava osservare le ali. Sul mercato era possibile vedere tre specie di baccalà: una con le ali al taglio della testa, chiamate orecchie, voltate entrambe verso la coda; un’altra con le ali entrambe rivolte all’insù; la terza con un’ala rovesciata all’insù e l’altra voltata in direzione della coda. I primi erano squisiti e da consumare sempre, i secondi erano scadenti e quindi da non acquistare, i terzi erano mediocri e da mangiare solo in rare occasioni. Le ali voltate verso la coda denotavano che il pesce «non aveva fregato», era grosso e manteneva le sue caratteristiche; quelle voltate in due modi significavano che i pesci presi stavano «fregando» ossia seminando; quelle rovesciate ambedue all’insù erano «il geroglifico che il pesce nella di cui cattura fu trovato», aveva già seminato ed era stanco, magro «esinanito e per conseguenza il peggiore».
Il baccalà si sostituiva alla carne e, non caso, era chiamato il «manzo dei poveri». I grandi proprietari terrieri, nella stipula dei contratti con i braccianti, oltre al salario prevedevano peperoni all’aceto, formaggio e baccalà. Il merluzzo salato, meno caro del pesce fresco, era alla portata popolino ma non da poter essere consumato frequentemente e, infatti, si cucinava in genere nelle domeniche, nelle feste e a Natale. Un’inchiesta ministeriale confermava che tra le classi povere si consumavano solo aringhe e baccalà ma il loro prezzo, benché basso, non ne permetteva l’uso quotidiano ed era limitato alle ricorrenze.
Il baccalà era venduto specialmente nelle cantine. E qualcuno faceva notare che, pur costando poco, per il volgo non era economico perché, essendo particolarmente salato, spingeva a bere tanto costoso vino. I baccalà offerti dagli osti ai clienti erano spesso piccoli merluzzi di qualità scadente mentre il pregiato baccalà verde, che aveva almeno due piedi di lunghezza, era riservato ai benestanti. Di questo baccalà spessoil volgo acquistava gli orecchiagnoli, alette e spuntature che i signori prenotavano per darle ai gatti. Il merluzzo salato di ottima qualità, era costoso per via dei dazi e i patrioti cosentini, in un manifesto affisso al portone della prefettura, accusavano Francesco II di «scorticare e far morire di fame la popolazione senza pietà» imponendo gabelle sul baccalà.
Il successo di baccalà e stoccafisso nella dieta alimentare delle popolazioni era dovuto anche alla proibizione della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno, che superavano un terzo, e tra i chierici anche la metà dell’anno. I vescovi invitavano i fedeli a nutrirsi durante i digiuni di baccalà e stoccafisso perché sapevano che tanta gente per i loro pranzi utilizzava pesci prelibati che non avevano niente da invidiare alla carne. Il merluzzo salato era il cibo della penitenza e nelle campagne dopo i funerali i parenti cenavano su una tavola senza tovaglia, fiaschi e bicchieri ed era «formalità indispensabile che siasi sempre il baccalà».
In occasione della Pasqua dei morti era uso «in tutto l’orbe rustico» nutrirsi con alimenti semplici e soprattutto merluzzi secchi e salati preparati in vari modi. In alcuni paesi le donne tendevano una corda da una finestra all’altra e facevano penzolare la Quaresima, una pupa di stoffa e di pezza con un fuso in mano e qua e là appesi saracche, sarde e pezzi di baccalà. La Quaresima, che seguiva ai giorni di grandi abbuffate, era rappresentata come una vecchia donna magra che accompagnava il Carnevale morto su un carretto tenendo in mano un baccalà o uno stoccafisso.
La scelta del baccalà o dello stoccafisso era inoltre spesso legata al prezzo più che al gusto. Un medico dell’Ottocento osservava che i labardoni erano acquistati dai benestanti nelle città e il pesce-bastone dai contadini nelle campagne. Il merluzzo secco, detto anche merluccio o merluccia, si conservava meglio di quello salato ma era più difficile da digerire poiché le carni, seccandosi, diventavano coriacee, acquisivano una «durezza offensiva» e, non a caso, bisognava batterlo e macerarlo per lungo tempo nell’acqua prima di cuocerlo.
Imbianchite il Baccalà, spinatelo bene, e disfatelo in scaglie, passate con olio in una cazzarola sul fuoco dell’erbe fine, indi stemperateci due alici, metteteci un pizzico di farina, e bagnatele con un pochino di vino e culì; fate che la salsa stia bene di sale e stretta, poneteci dentro il Baccalà, e fatelo insaporire per mezz’ora fuori del fuoco, indi vuotatene una quarta parte sul piatto, che dovete servire, spolverizzate sopra con pane grattato, mescolato con mostacciolo pesto, e mandole bruscate, e peste finissime, poneteci sopra l’altra terza parte del baccalà, e spolverizzatelo nell’istessa guisa, e così farete del resto; aspergete sopra col resto della salsa, fategli prendere al forno un leggiero colore, e servite subito. Osservate che non bolla nel forno (Ricetta di Vincenzo Agnoletti, 1819)
Fonte : I calabresi